L'Italia del Settecento - 1700-1789 by Indro Montanelli Roberto Gervaso

L'Italia del Settecento - 1700-1789 by Indro Montanelli Roberto Gervaso

autore:Indro Montanelli, Roberto Gervaso
La lingua: ita
Format: epub
editore: BUR
pubblicato: 1998-01-19T05:00:00+00:00


CAPITOLO VENTUNESIMO

I BORBONE DI NAPOLI: FERDINANDO

Il presidente del Consiglio di reggenza, destinato a restare in carica fino alla maggiore età del nuovo Re, cioè otto anni, era il Principe di San Nicandro. Ma si trattava soltanto di una controfigura. L’anima e il cervello di quel supremo consesso era naturalmente il Tanucci, che non si lasciò scappare l’occasione di quell’interregno per condurre a termine le riforme a cui più teneva.

Nei rapporti con la Chiesa, la timoratezza di Carlo l’aveva obbligato ad accettare alcuni compromessi; e il Concordato del 1741 era appunto uno di questi. Ora che aveva le mani libere, il Tanucci decise di usarle. Con bella disinvoltura, stabilì che, alla morte di Vescovi e abati, lo Stato avrebbe disposto dei loro beni e benefici ecclesiastici, per destinarne le rendite a lavori di pubblica utilità. Ridusse e poi abolì le «decime» ecclesiastiche, cioè l’imposta che la Chiesa imponeva sui raccolti, e mise un fermo definitivo alla manomorta, cioè ai beni immobiliari della Chiesa, vietando ogni loro ulteriore espansione.

La Chiesa naturalmente protestò. E Tanucci ne colse il destro per dichiarare nulla e inefficace nel Regno qualsiasi bolla e lettera papale che non fosse prima approvata dal Re. Non solo. Ma di sua testa procedette anche allo sfoltimento del Clero stabilendo che gli ecclesiastici non potessero superare il cinque per mille della intera popolazione, che alla Chiesa non dovessero essere avviati i figli unici, che nessuna famiglia potesse contribuirvi con più di un figlio, e che nessuno potesse prendere i voti se non disponeva di un adeguato patrimonio personale.

È facile immaginare il risentimento non soltanto di Roma, ma anche del Regno, dove quella ecclesiastica era considerata la carriera più remunerativa e l’unica aperta anche ai diseredati. Ma Tanucci, lungi dal lasciarsene scoraggiare, approfittò della cacciata dei gesuiti dalla Francia, Spagna e Portogallo per prendere la stessa misura. E come la Francia rispondeva alla reazione del Papa annettendosi Avignone, così lui vi rispose annettendosi Benevento e Pontecorvo che appartenevano agli Stati pontifici.

In quel momento (1767) Ferdinando, avendo compiuto i sedici anni, era già entrato in carica. Ma aveva accettato le decisioni del suo Ministro senza neanche discuterle, perché di discutere non aveva nessuna voglia. Da ragazzo, con la sua vivacità, prometteva bene; anzi era talmente vispo e di scilinguagnolo pronto che suo padre lo chiamava «paglietta». Ma dall’adolescenza in poi era cresciuto soltanto di scheletro fino a raggiungere l’altezza d’un granatiere. Di cervello, era rimasto bambino.

Anni dopo, in una lettera da Napoli a sua madre, Giuseppe d’Austria ne dava colpa a Tanucci che, secondo lui, aveva fatto impartire una cattiva educazione a Ferdinando per inabilitarlo al potere e restarne il padrone. Che il ministro si fosse poco preoccupato del Principe e della sua educazione, è vero. E forse è anche vero che la sua immaturità non gli dispiaceva. Ma dubitiamo che una pedagogia più accurata avrebbe potuto cavare di più da un essere, cui madre natura aveva negato qualsiasi senso di responsabilità.

Non era stupido. Era solo totalmente refrattario a qualsiasi serio impegno, a cominciare da quello dello studio.



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